Fondazione Musica per Roma presenta
Promosso dal Comune di Roma Assessorato alle Politiche Culturali
I luoghi tradizionali presuppongono una società sostanzialmente sedentaria, un microcosmo dotato di confini ben definiti. I non luoghi, individuati con acutezza da Marc Augé, sono i nodi e le reti di un mondo senza confini. Dal punto di vista architettonico i non luoghi sono gli spazi dello standard. Sono strutture dove nulla è destinato al caso: al loro interno è calcolato il numero dei decibel, dei lux, la lunghezza dei percorsi, la frequenza dei luoghi di sosta, il tipo e la quantità di informazioni. Sono sicuramente gli unici spazi architettonici dove si è concretizzato il sogno della macchina per abitare, cioé della ergonomia, della efficienza, del confort tecnologico. La loro quasi inevitabile omogeneizzazione è il prezzo pagato in termini figurativi. I non luoghi sono identici a Milano, a New York, a Londra o a Hong Kong. Monotonia, noia? Tutt’altro. Gli utenti poco si curano che i centri commerciali sono tutti uguali. Anzi apprezzano - lo dimostra il successo della formula del franchising - la ripetizione delle infinite strutture così simili tra di loro. L’utente sa, infatti, che troverà in qualsiasi città la catena dei suoi ristoranti preferiti o il suo albergo, e sarà certo degli standard di servizio a lui offerti. Similmente sa che qualunque aeroporto o autostrada vale un’altra e può tranquillamente avventurarvisi sia che si trovi a Palermo o a Montreal. Dice Augé: “paradosso del non luogo: lo straniero smarrito in un Paese che non conosce (lo straniero “di passaggio”) si ritrova soltanto nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini o delle catene alberghiere”. Simili a se stessi, eppure diversi: ecco un altro paradosso dei non luoghi. Entriamo in un grande centro commerciale: troveremo la cucina cinese, italiana, francese, tunisina, il negozio danese, americano, giapponese. Ognuno con un proprio stile. Continua Augé “ nei non luoghi vi è sempre un posto specifico (in vetrina, su di un manifesto, a destra dell’aereo, a sinistra dell’autostrada) per delle “curiosità” presentate come tali (gli ananas della Costa d’Avorio, Venezia città di Dogi, la città di Tangeri, il sito di Alèsia): ma essi non operano alcuna sintesi, non integrano nulla, autorizzano solo per il tempo di un percorso, la coesistenza di individualità distinte, simili e differenti le une dalle altre” C’è un film di Woody Allen ambientato in un grande centro commerciale. I protagonisti passano da un ristorante giapponese a un negozio di articoli indiani, a uno
spettacolo di intrattenimento. La macchina da presa non esce dal centro commerciale e non ce ne è bisogno: in fondo il mondo con le sue diversità è tutto racchiuso lì. D’altronde, i giri turistici, non offrono molto di più. Anzi, i più grandi centri commerciali hanno la capacità di attrazione di una località turistica di grande prestigio. D’altronde noi europei che tanto storciamo il naso di fronte al potere devastante del tipico che caratterizza i non luoghi non ci accorgiamo, che nonostante le nostre Soprintendenze imbalsamatrici, abbiamo permesso una simile omologazione di tutti i centri storici delle nostre città. A Londra, Parigi, Milano o a Roma si passeggia nello stesso modo: identici i negozi, i mimi, i venditori di cibarie, le macchine per il cambio di valuta, il senso di solitudine. Per sentirci in un contesto sociale - nota Augé- non ci rimane che guardare lo spettacolo degli altri che camminano e, a loro volta, ci osservano: uno spettacolo dove attori e spettatori si confondono in un reciproco e continuo scambio delle parti. Nello stesso tempo, le nostre città “si trasformano in musei illuminati, settori riservati e isole proprio mentre tangenziali, autostrade, treni ad alta velocità e strade a scorrimento veloce le aggirano”.
Cosa fare dunque?